Le ragioni e le scelte

L’egemonia culturale liberal-democratica
e quali motivi sono legittimi

Giuseppe Schiavone

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Che viviamo in un periodo di egemonia culturale liberal-democratica mi sembra un punto che non è nemmeno necessario argomentare. Perciò mi limiterò a definire che cosa significa liberal-democratico. A scanso di equivoci.

Per la Stanford Encyclopedia of Philosophy (la fonte di tutti gli ignoranti che si vergognano a citare Wikipedia, come me) il liberalismo è la dottrina secondo la quale:

[…] freedom is normatively basic, and so the onus of justification is on those who would limit freedom, especially through coercive means.

La sua specificazione democratica è, per intenderci, qualcosa di simile a, o derivata da, l’idea di giustizia di John Rawls (che rimane essenzialmente identica nel tempo, nonostante le numerosissime pagine che lui dedica al tentativo di riproporla come un ideale politico in Political Liberalism) e cioè:

[…] a ‘property owning democracy’ with a wide diffusion of ownership[…].

Il problema, ovviamente, non è questo ideale normativo, che come qualunque ideale normativo è completamente inservibile. Ma quali conseguenze ingenera la sua reincarnazione in regime culturale. Parto da un esempio, che chiaramente non è rappresentativo e che è solo un esempio.

Stamattina sono andato al bar in corso Garibaldi, a Milano. Un bar qualunque, di quelli che potevano non scegliere un nome. Appena mi sono seduto il cameriere mi ha fatto presente che non servivano al tavolo. Avrei dovuto capire già lì che non era il posto giusto per mangiare. Ma siccome mi sembrava poco educato alzarmi e andarmene — facendo la figura di quello che “ah, no, se devo portarmi la roba al tavolo piuttosto non mangio” (a questo livello di profondità agiscono l’egemonia culturale e mia madre) — mi sono alzato e sono andato al bancone a ordinare. Dopo aver esaminato la lista di panini banalissimi con nomi inutilmente ricercati, ho chiesto se potevo avere un sandwich vegetariano. A questo punto sono stato trascinato in una conversazione surreale. Nella conversazione G sono io e C è il cameriere.

C. Prima mi spieghi però perché vuoi un panino vegetariano…
G. Perché non mangio carne.
C. Sì, OK, ma perché non mangi carne?
G. Perché mi dispiace per gli animali.

Come ogni barzelletta, anche questa fa più ridere se raccontata in prima persona. Io, però, non sono stato al bar stamattina e non sono vegetariano.

La protagonista dell’aneddoto è la mia fidanzata e può darsi che nello scrivere questo articolo io stia cavalcando la furia dell’uomo meridionale offeso. Credo comunque che il motivo addotto dalla mia fidanzata, tutto sommato, sia un motivo rispettabile. Soprattutto se recuperato nel mezzo di uno scambio di battute che è l’equivalente ideologico di uno stupro. Evidentemente il cameriere non era dello stesso avviso perché, scocciato, le ha preparato un panino lattuga e mozzarella.

Ecco, quando mi ha raccontato l’aneddoto, io ho riflettuto (poco, as usual) e ho consigliato alla mia fidanzata, in altre occasioni simili, se ce ne saranno, di rispondere che non mangia carne perché non le piace. Nello scenario, mi è parsa l’unica risposta con cui era plausibile uscire velocemente dall’imbarazzo senza ricorrere alla malattia (un tema che c’entra, ma che devo ancora capire come).

Mi sembra chiaro che siamo arrivati al punto in cui la medesima azione (in questo caso rifiutare di mangiare carne), se alimentata da qualche considerazione di merito, intendo da qualche considerazione morale, diventa immediatamente politica (lo deve essere, beninteso: mai dimenticare il femminismo che in Italia non è mai arrivato), e quindi intollerabile. E l’unico modo di uscirne è fare appello alla briscola dell’edonismo immotivato, sventolare l’assenza di implicazioni politiche e suggerire che la ricerca del piacere non è in alcun senso una scelta morale. “Siamo arrivati a questo!”

E mi sembra altrettanto chiaro che l’aneddoto sia un esempio della natura paradossale dell’ideologia del liberalismo democratico. Un esempio che fa il paio con quello degli atti vandalici in corso Magenta di qualche giorno fa e che, se considerato assieme a questo, assume un significato leggermente diverso e più interessante.

La scelta dell’uso della violenza diventa oggetto di riflessione per il pensiero dominante e si confronta con l’illegittimità delle motivazioni morali (o ideologiche, se vogliamo) e viene misurata in maniera uguale e simmetrica alle scelte morali (quindi politiche) che popolano la cronaca delle persone qualunque, di chi non brucia le macchine. La violenza, l’unica manifestazione reprensibile, intollerabile per definizione, al contrario di quello che sembra vero per comportamenti altrimenti tollerabili, è più grave, più inaccettabile se e quando ingiustificata. Cioè quando è mero gesto estetico. Un gesto al quale bisogna, quindi, rispondere con lo scandalo. Uno scandalo amplificato dalla natura gratuita della violenza. Come se, in questo frangente, una motivazione ideologica, morale e politica potesse rendere meno illegittima la scelta del ricorso alla violenza.

È una violenza, quella irriflessa, solo estetica, così scandalosa che smette di far paura e inizia a far ridere. Fa ridere (per citare Bob Mankoff) come i pericoli scampati.

Non è un caso che al massimo dell’espressione estetica della politica (gli anni ’70) sia corrisposto il massimo dell’anestesia della vita personale (l’eroina). Viviamo anni identici e opposti a quelli, di totale anestesia politica e massimo edonismo privato. O almeno questo mi sembra.

Un’icona dell’estetica della rivoluzione armata

I due paradossi che ho appena descritto sono, al fondo, un’unica considerazione: il pensiero liberal-democratico non è in grado di accomodare l’ideologia nei giorni sempre identici che viviamo (perché dà fastidio, forse legittimamente, al barista), né di accettare che l’edonismo sia una giustificazione sensata per i giorni diversi, nei quali facciamo cose eventuali (come sfasciare una cabina telefonica o sventrare un bancomat).

Non so se c’è una soluzione. In fondo il tipo di repressione che mi infliggo per non passare come un rompicoglioni al bar è più accettabile che trovare la mia macchina arsa e non avere il diritto di sapere perché. Forse, però, il ricorso al tipo di giustificazione che pretendiamo stia dietro a gesti politicamente carichi, dovrebbe valere a maggior ragione per i gesti di cui è costellata la nostra vita di merda. Forse, la fatica che facciamo a vivere, le gomitate che prendiamo in pullman e i letti sfatti su cui dormiamo avrebbero più senso se ci concedessimo di non accettare mai niente, di reagire sempre, di avere il tempo per decidere se c’è un buon motivo per i diritti che crediamo di avere.

Evitando di invitarvi a leggere gli epigoni scarsi di Bernard Williams, vi invito invece a leggere Bernard Williams. Il Bernard Williams che scopre che la scienza non funziona come gli scienziati pretendono che funzioni e che allora capisce che la politica è una forma di scienza che scopre fatti esattamente come la scienza. Fatti di matrice differente, soltanto: i fatti della legittimità, appunto (In the Beginning Was the Deed).

Si tratta, alla fine, pur sempre di scegliere la democrazia. Solo non questa democrazia. Non la democrazia rappresentativa che abbiamo ricevuto in eredità da Madison e che Nadia Urbinati assieme a una pletora di tromboni continua a proporre come strumento definitivo. Non è, questa democrazia, il genere di impresa epistemica che aveva in mente Williams (e, per quello che conta, che ho in mente io). Perché è, a un esame attento, solo un garbato invito a non cagare il cazzo, è il permesso di fare cose che non abbiamo gli strumenti per fare.

I macchinari democratici rappresentativi si sono già rivelati completamente incapaci (oltreché di garantire benessere diffuso a lungo termine ed eguaglianza) di spiegare il fascino della dimensione estetica e agonistica della politica e vanno perciò dismessi. Perché quella è l’unica dimensione che restituisce senso alle scelte (perfino quelle di consumo) che facciamo oggi, invece, tutti i giorni nella nostra stessa, totale, indifferenza.

Con questa democrazia, con i suoi strumenti, l’unico dialogo comprensibile con chi spacca le vetrine avrebbe una forma di questo genere:

V. Spacco tutto p*****io!!!
C. Prima mi spieghi però perché vuoi spaccare tutto…
V. Perché mi fa schifo tutto.
C. Sì, OK, ma perché ti fa schifo tutto?
V. Perché mi rende felice.

E pare che, a occhio, non sia una risposta che siamo disposti ad accettare.

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