Deflagrazione del dominio della lotta

“Il buco”, le istanze politiche e le scelte di consumo

Giuseppe Schiavone
8 min readApr 4, 2020
Still rubata su internet de “Il buco” di Netflix.

INTRO: DI COSA PARLA IL FILM (CREDO)

Il buco, l’avrete visto, è un film spagnolo del 2019, rilasciato in esclusiva su Netflix il 20 marzo di quest’anno. Al 13esimo giorno di questa quarantena.

Riassumo brevemente la trama per chi non l’avesse ancora visto.

Un tipo che si chiama Goreng e che ha il fisico e la barba solo sul pizzetto degli insegnanti di recitazione che ti scopano la fidanzata, ma tu lo scopri solo mesi anni dopo, questo tizio che si chiama Goreng si candida per entrare in questo buco. Ho letto da qualche parte che lo fa per smettere di fumare, ma devo essermi perso la scena in cui viene rivelato questo dettaglio. La cosa importante è che si risveglia dentro questa scenografia con un diciamo importante debito artistico nei confronti di “Cube”.

Il buco è una specie di tunnel verticale di cemento diviso per piani. Ogni piano è occupato da due persone, che rimangono su quel piano per un mese. Ogni giorno di quel mese una piattaforma viene caricata di cibo (il cibo, si scopre, è la somma di tutti i piatti preferiti di tutti i prigionieri) e scende un piano alla volta. La piattaforma si ferma pochi minuti al piano e lascia la possibilità di mangiare quello che c’è, nella quantità che si crede. Chiaramente, più è basso il piano a cui ci si ritrova, meno cibo rimane sulla piattaforma da mangiare, più è alto il rischio di morire di fame prima della fine del mese. Alla fine del mese ogni coppia viene riassegnata a un nuovo piano (nel caso in cui uno dei due sia morto viene sostituito).

Ognuno degli ospiti (dello stato, ingiustamente ‘ncarcerat EHEHEH) può scegliere un oggetto da portare con sé per l’intero periodo di soggiorno.

Goreng, confermando che è ESATTAMENTE quel sedicente insegnante di recitazione attore fallito che ha messo su una scuola e ora di professione si scopa le fidanzate degli ignari ragazzi che hanno questa posa cinica e disinteressata, ma in realtà volevano essere voluti bene dal padre e impazziscono immaginando queste lezioni di recitazione come dei baccanali, delle orge senza regole, beh Goreng si è portato una copia del Don Chisciotte.

Il racconto offre una serie di spunti metaforici (a volte analogie fatte e finite) sulla società dei consumi e sul capitalismo in senso più ampio. Come potete intuire dalla sola premessa del film, tutto può essere letto, dentro la finzione del film, come un enorme (e inutilmente costoso) esperimento sociale sulla possibilità della cooperazione in condizioni di oggettivo privilegio (chi sta sopra e chi sta sotto).

C’è una domanda a cui gli scienziati (i personaggi invisibili che si può ipotizzare fossero dietro questo meccanismo di morte e violenza che nel film si chiama “l’Amministrazione”) possibilmente cercavano risposta e potrebbe essere formulata così: “quante generazioni (i.e. quanti mesi) e quanti morti serviranno a far emergere uno schema cooperativo che assuma qualche forma di egualitarismo legata alla ‘lotteria’ dell’assegnazione dei privilegi?”.

In questo senso il film è una versione molto più entertaining di qualunque libro di filosofia politica, della domanda che qualunque teoria della giustizia cerca di farsi.

La proposta del velo di ignoranza di Rawls, per come mi ricordo di averla studiata, era alla fine questo: un modo per cercare di inscrivere nell’architettura dei valori e nei meccanismi di amministrazione della nostra società l’ignoranza riguardo il posto che ciascuno di noi occupa oggi in questa società (immaginando quindi di avere tutti niente da principio, anche se questo non è vero, e scegliendo, di volta in volta, risoluzioni politiche del disaccordo che siano compatibili con principi che tutti saremmo disposti a sottoscrivere appunto indipendentemente da quello che abbiamo o non abbiamo, dal nostro presente privilegio o svantaggio).

In un senso la piattaforma è un sistema politico giusto: nessuno può sapere dove si troverà il mese successivo (talking about tassazione totale dell’eredità?), nessuno può accumulare privilegio (non si può tenere al piano niente di commestibile che sia stato sulla piattaforma) durante ciascuna singola generazione, non c’è una vera logica nell’assegnazione ai piani (è solo fortuna, caso), nessuno ha a disposizione nulla se non se stesso e quell’unico oggetto che ha deciso di portarsi dietro, nessuno è stato costretto a far parte di questa perversa comunità (anche ai carcerati, come il primo compagno di Goreng, viene data la possibilità di scontare la pena altrove e in altre maniere), tutti hanno conoscenza totale delle regole e (quasi) assoluta del funzionamento del sistema.

La prima cosa che mi viene da chiedermi, quindi, è: ma è plausibile questa evoluzione, questa deriva di un sistema pensato per essere una rappresentazione brutale della distribuzione casuale delle risorse? Una domanda che si sarà fatto anche David Desola (l’autore del soggetto e della sceneggiatura), perché a un certo punto compare in scena una ex dipendente dell’Amministrazione che prova a spiegare in termini facilmente comprensibili che la macchina funziona senza problemi se ognuno prende solo quello che gli spetta definendo le porzioni per il piano successivo. Questo progetto di catechizzazione ha vita breve nel film e il finale (che non spoilero, ma mi ha lasciato un po’ così 👨🏻) lascia intendere che l’ambizione di dimostrare che è possibile auto-gestire il sistema in modo che nessuno ne soffra è un’ambizione allucinatoria.

Sono sicuro che cercando un paio d’ore su JSTOR ci sia qualche Post-Doc di qualche Università americana di seconda fascia che ha calcolato perché e percome non ci sono gli incentivi economici giusti per l’emergenza di uno schema davvero cooperativo in questo sistema, ma volevo provare, più modestamente (e non essendo capace di fare i conti), a proporre una riflessione su quello che il fallimento di questo progetto di rivoluzione potrebbe significare per noi.

Che è quello che faccio nel prossimo capitoletto.

IL PROSSIMO CAPITOLETTO: COSA SI PUÒ DAVVERO SCEGLIERE?

Dentro il buco (la fossa o come minchia si chiama) gli individui non possono decidere molte cose. Possono scegliere di mangiare, di non mangiare, quanto mangiare, quanto non mangiare, di ammazzarsi, di ammazzare.

Sono tutte, queste, in un senso forse troppo ampio, scelte di consumo. Al netto delle deroghe al senso comune (ad esempio non aggiungere il divieto di uccidere in maniera deliberata), che chiaramente rendono interessante il film, le uniche cose che ciascuno può decidere di fare nel buco sono normalissimi comportamenti individuali. Da questo punto di vista, una delle forme di deprivazione più rilevanti per questa tesina che sto scrivendo senza motivo, è quella legata alla comunicazione. I prigionieri, infatti, possono decidere di parlare coi piani immediatamente sopra e immediatamente sotto, possono parlare col proprio compagno di cella, fidarsi del proprio compagno oppure no. Ma non ci sono veri strumenti di comunicazione, nessuno può organizzarsi davvero.

E questo mi ha fatto venire in mente quello che vorrei dire, partendo dal film e che non so se il film voglia davvero dire. Che è che quello che rende ingiusto anche un sistema come questo, apparentemente davvero equo (nel senso di egualitario, appunto), è l’impossibilità di organizzarsi, di intraprendere azioni politiche, azioni che non siano scelte individuali di consumo.

In questo, il buco è un sistema distopico che è una rifrazione nemmeno troppo fantasiosa della nostra realtà: da anni oramai il sistema di produzione e quello di riproduzione del capitale ha integrato questa idea di consumo etico che devolve sulle persone il debito che le imprese contraggono nei confronti dei dipendenti, dell’ambiente, della società (un debito che è l’estrazione e lo spostamento della ricchezza da un posto all’altro).

Ci hanno venduto una forma di responsabilizzazione totale, ci vogliono, in quanto consumatori, accountable verso il mondo, l’universo, l’ambiente, le bestie, la natura, l’ozono, gli uomini, tutti.

Questo investimento personale nel proprio profilo di consumo (un investimento per molti faticoso, ma anche redditizio; penso a Giulia, la mia fidanzata, che ha fatto, almeno in parte, della cura del proprio profilo di consumo — non necessariamente responsabile, ma sicuramente deliberato—il proprio lavoro) è, secondo me, una distrazione deliberata da un altro tipo di investimento che è quello in quelle che voglio chiamare azioni politiche.

Non so se questa distinzione tra scelte di consumo e azioni politiche esista in letteratura, ma per quel che mi interessa dire non è importante. Ve ne do una definizione mia.

  1. Le scelte di consumo sono scelte individuali che segnalano le proprie preferenze riguardo l’ordine del mondo senza pretendere che succeda niente di altro, circa l’ordine del mondo, oltre alla segnalazione. Delegando il significato politico di queste scelte di consumo a forme aggregative e quasi completamente implicite di costruzione del consenso (se tutti comprano X, otterremo Y, allora compro X sperando che tutti lo facciano e che quindi otterremo Y). La cosa più politicizzata che possiamo fare con queste scelte è raccontarle sui canali (i nostri ‘profili social’) che questo sistema di consumo ci ha messo a disposizione per distribuire il messaggio che c’è qualcosa da acquistare/usare/consumare che vogliamo significhino il mondo che abbiamo in mente, ma prima di tutto l’idea che di noi stessi vogliamo gli altri intrattengano.
  2. Le azioni politiche, invece, sono azioni che riconoscono che esiste qualcosa oltre l’individuo (una forma di anti-Thatcherismo ingenuo che più o meno avrebbe la forma There is such a thing as society e che pretende che organizzazioni e istituzioni possano esistere indipendentemente dalle persone che li abitano) e che azioni individuali non possono (e non dovrebbero) essere lo strumento per dialogare su cosa è giusto o meno fare come società. Si tratta, per la definizione che mi sembra sensato dare di politica, di azioni agonistiche e antagonistiche, azioni che hanno un dominio diverso dal mercato (l’analogia del mercato delle idee, in cui si vendono piattaforme politiche e si compra con le preferenze è un’idea che personalmente considero irrealistica di come funzionano davvero le istituzioni), un dominio in cui il conflitto non può essere risolto dall’acquisto di pile in plastica riciclata, dalla scelta di utilizzare l’intero gambo del sedano, dalla scelta di prendere la bicicletta per andare in ufficio o dalla scelta di spegnere il rubinetto mentre ci si lava i denti. Sono azioni che sottendono forme di partecipazione non individuale.

«They are casting their problems at society. And, you know, there’s no such thing as society» — Margareth Thatcher

Nel buco, come dicevo, non c’è uno spazio legittimo per le azioni politiche definite in questo modo. E infatti tutto viene risolto in un sacrificio individuale dal significato metaforico, in una allucinazione mistica (cristologica) che ha senso per risolvere un film che è troppo lontano dal proprio finale, ma non per riorganizzare la nostra società.

Perché le democrazie dovrebbero essere precisamente quello spazio di legittimità per le azioni politiche.

Stefano Sgambati, uno scrittore di cui ho letto solo status su Facebook, ma che immagino bravissimo, il tipo di autore che amerei avere la pazienza di leggere per davvero, qualche giorno fa ha pubblicato uno status lungo con alcune cose che non condivido, ma una conclusione che vorrei aver scritto io (e che forse, con parole diverse, ho già scritto).

Il post intero di Sgambati lo trovate qui.

Acquisita (giustamente, credo) l’istanza femminista che tutto è politica, anche la scelta di come, dove, con chi scopare, mi rimane il dubbio che se tutto è politica, allora niente è politica, che questa forma di deflagrazione del dominio della lotta sia in realtà una forma di diluizione del potere di noi come parte di organizzazioni non atomiche (noi e la nostra famiglia).

Oggi, in un periodo in cui sembra scontata la possibilità di derogare al principio per cui debba sempre esserci una forma di bilanciamento tra diritto alla sicurezza (ora, sopravvivere e non venire contagiati) e diritto alla libertà individuale (ora, uscire di casa, muoversi senza dover rendere conto di dove o perché stiamo andando), proprio oggi, credo, è importante domandarsi se domani, quando torneremo alla vita, vogliamo davvero continuare a credere che sia possibile risolvere problemi sistemici con soluzioni individuali.

O se invece vogliamo iniziare a questionare ‘l’Amministrazione’.

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